Chi sopravvive non è debole: pensieri su un fraintedimento
A ottobre abbiamo portato quasi tutta la scuola a vedere “Io, capitano”. Non pensavamo fosse un film perfetto, ma ci sembrava comunque necessario: dal punto di vista sociale e politico oltre che da quello artistico. Sapevamo anche che aveva contenuti duri, ma siamo stati certi che meritasse d’essere visto.
Giorni dopo ho pensato all’alunna di una mia amica, in un’altra scuola: una ragazzina arrivata in Italia con un viaggio simile a quello dei protagonisti del film. Nel momento in cui ho pensato a lei, mi sono paralizzata: come avrei gestito la cosa, se fosse stata alunna mia e se la scuola avesse pensato a un’attività didattica come quella? Mi sono resa conto che mi mancavano tante risposte, ma che una, almeno, l’avevo: ci avrei voluto parlare prima. Avrei voluto darle l’agio di prepararsi in anticipo – di scegliere come prepararsi in anticipo – all’esperienza di assistere in gruppo alla rivisitazione artistica di un suo vissuto traumatico. Avrei fatto errori, questo lo so. So anche un’altra cosa, però: non sarei stata animata dal desiderio di proteggerla. Che pensiero risibile: proteggere io, ex post, una persona che è già sopravvissuta all’impensabile. Non avrei visto quell’interazione come la paternalistica protezione di un debole: chi sopravvive non è debole. Il mio desiderio sarebbe stato un altro: la scuola intendeva proporre agli studenti un’esperienza, e io avrei voluto mettere quella mia studente nella condizione migliore per fruire insieme agli altri di quell’esperienza, senza che l’essere colta alla sprovvista dal riaffiorare di un trauma le togliesse troppe risorse intellettuali per farlo. Avrei fatto del mio meglio, insomma – in modo sicuramente maldestro e migliorabile – per fornirle quello che si può definire come un trigger warning.
Nel mondo dell’insegnamento dei classici è entrato da qualche tempo il dibattito sui trigger warning. Come spesso accade, è un dibattito per lo più statunitense, ma ne stanno arrivando echi anche qui. Negli spazi dell’attivismo si sa bene di cosa si tratti; nell’accademia molto meno. In sunto, un trigger warning è un avviso, posto prima di un contenuto, teso ad anticiparne la possibile natura traumatica. Nell’insegnamento dei classici se ne parla soprattutto a proposito di testi che evocano in modo più o meno esplicito, esteso e normalizzante la violenza sessuale.
Alcune delle opinioni sulla questione mi sembrano semplicemente in malafede: sono quelle di chi grida alla cancel culture ogni volta che ci si interroga criticamente sui nostri approcci al canone. Queste persone sembrano suggerire che un trigger warning sia l’anticamera per bandire dalle classi un testo. Ecco: non lo sono. Su questo non c’è da discutere. Sarebbe come mettersi a difendere le pillole contro l’intolleranza al lattosio dall’accusa di voler abolire la mozzarella.
C’è però un’opinione che torna spesso anche in discorsi di valore. In Italia, è emersa di recente in un’intervista fatta a Maurizio Bettini, uno studioso che – a scanso di equivoci – non solo è preparatissimo, ma è stato anche spesso promotore di approcci innovativi all’antichità classica nel panorama italiano. L’opinione di cui parlo è questa, che riporto per intero:
Il ricorso ai trigger warning suscita una riflessione riguardo agli studenti. I quali vengono concepiti come persone fragili, da proteggere, ritenuti cioè incapaci di reagire con le proprie risorse morali e intellettuali qualora debbano ingaggiare un dialogo con testi che presentino aspetti critici o spiacevoli. I giovani sono visti un po’ come dei bambini. Siamo di fronte a una pedagogia della protezione morale a tutti i costi – e fa davvero una strana impressione, perché suona come un ritorno ai libri solo per grandi, ai testi espurgati, alle pellicole tagliate, al ‘vietato ai minori di’.
Questo vale in particolare per le studentesse, che debbono essere protette di fronte a letture caratterizzate da contenuti sessuali particolarmente forti, come molestie, violenza, stupro, assoggettamento e così via. Si dimentica insomma che leggere non significa accettare, e soprattutto che la lettura non è una malattia contagiosa. Se solo si pensa alla costruzione della donna quale veniva propugnata dai movimenti femministi del passato – al loro reclamare per lei una forte agency individuale – qui siamo davvero agli antipodi, con il ritorno a una figura femminile debole e facilmente scalfibile.
Secondo Bettini, i trigger warning sarebbero pensati per proteggere persone particolarmente fragili da contenuti teorici che potrebbero impressionarle. Comprensibilmente, a Bettini questo sembra allora un artificio paternalistico, teso a far crescere nella bambagia individui che dovrebbero invece, nei propri anni formativi, costruirsi gli strumenti per guardare in faccia il mondo. Se il senso dei trigger warning fosse questo, darei ragione a Bettini. Il punto è che - come ha suggerito anche Elena Giusti in un bell’articolo sul Manifesto - credo che dietro a una visione simile ci sia un fraintendimento fondamentale.
I dati ci dicono che una donna su tre in Italia subisce qualche tipo di violenza sessuale nel corso della sua vita. I dati sulle età in cui si è più vulnerabili alla violenza sono meno precisi, anche se sembra che molto accada entro i 34 anni. Mi rifarò comunque – mi perdonerete – anche all’esperienza: la stragrande maggioranza delle mie alunne delle superiori dichiara di aver già subito qualche tipo di molestia; quanto alle donne che conosco che hanno subito violenza sessuale, quasi tutte le hanno subite entro i vent’anni. Nell’aula di una scuola superiore in cui ci siano quindici ragazze, è quasi certo che tutte loro abbiano già subito qualche forma di molestia ed è probabile che almeno una di loro sia stata stuprata. Nell’aula di una scuola superiore, la violenza sessuale non è un contenuto teorico perturbante: è un’esperienza vissuta.
Ecco dunque un primo fraintendimento da chiarire. Chi propone di portare nelle aule i trigger warning su contenuti relativi alla violenza sessuale non ha in mente, come destinatari della misura, dei delicati fiori di campo che non vogliono pensare a temi forti in chiave teorica. Chi lo fa ha in mente persone per le quali la violenza non è un’ipotesi, ma un vissuto già esperito sulla propria carne.
Non è tutto qui, però, il fraintendimento. Resta da discutere il senso dell’operazione, che per Bettini e altri sta comunque nel proteggere. Anche questo, secondo me, è un errore di prospettiva. Torniamo a pensare a quell’aula. Tra i banchi ci sono una, due, tre persone che hanno subito una violenza. Sono a scuola. Studiano. Parlano con gli amici. Avranno chili di PTSD da processare, ma sono lì: vive, forse rotte, ma in piedi. Queste persone non hanno bisogno della nostra protezione, del nostro paternalismo: sono già sopravvissute alla cosa dalla quale avrebbero avuto diritto di essere protette. Hanno solo bisogno – come tutti – della nostra capacità di cura.
Ora la vedo, la domanda in arrivo: se queste persone non sono deboli, fragili, bisognose di protezione, perché dovremmo usare dei trigger warning per loro? La risposta richiede un ultimo passo indietro.
Una grande differenza tra un’esperienza semplicemente dolorosa e una autenticamente traumatica sta nel modo in cui la seconda riemerge in chi l’ha vissuta. Il ricordo di un’esperienza dolorosa è un processo intellettuale; il riaffiorare di un trauma è invece un processo viscerale, che prende possesso del corpo prima che della mente, che rende per definizione poco lucidi per qualche istante, finché l’ondata, con clemenza, passa. Una studente che ha subito una violenza e si trova a leggere in classe dello stupro di Lucrezia, senza alcun preavviso, passa attraverso un’esperienza corporea del genere. Ne uscirà viva senz’altro; è già uscita viva dal suo, di stupro. Ma qualunque sia il contenuto educativo che si voleva veicolare in quella lezione, per lei quel contenuto andrà perduto, perché le sue energie saranno state concentrate nella gestione del riaffiorare del trauma. Alcuni suggeriscono allora di non leggerli affatto, testi con contenuti come quelli, ma io – come dicevo su Ghinea a maggio – dissento: non possiamo scappare dal canone, tanto ci plasma anche se non lo guardiamo. Ecco allora che qualcuno fa una proposta: diciamo in anticipo ai nostri studenti che l’indomani in classe tratteremo un testo d’argomento potenzialmente traumatico. Diamo loro il tempo di prepararsi in autonomia; di lasciare che l’ondata arrivi e passi. Forniamo loro un trigger warning. In questo modo, forse, salveremo capra e cavoli: continueremo a guardare in faccia i testi che ci hanno plasmato, e metteremo tutti i nostri studenti nelle migliori condizioni per poterne fruire.
Io non so se i trigger warning siano la soluzione giusta. Sono la prima a non avere chiaro come usarli in modo efficace in classe, a chiedermi se non ci sia un’altra via meno ingessata, più integrata nel flusso della lettura e dell’insegnamento. Come nei dibattiti sulle soluzioni per una lingua più inclusiva, non sono sicura della bontà delle risposte che stiamo trovando, ma sono grata a chi almeno prova a porre le domande necessarie.
Di una cosa, però, sono certa. Chi pensa che i trigger warning siano uno strumento della fantomatica cancel culture, un modo per limitare la diffusione di un certo canone culturale, ha torto. Al contrario, i trigger warning sono un tentativo – migliorabile, ma onesto - per rendere accessibile quel patrimonio anche a chi ne è stato troppo a lungo respinto. Abbiamo aperto le porte; stiamo aggiungendo dei posti a tavola; siamo innamorati del cibo che serviamo, e vogliamo fare il possibile affinché tutti coloro che lo desiderano possano goderne. Se ci è richiesto qualche sforzo, ben venga. Abbiamo intenzione di prenderci cura di tutti coloro che si accostano a questo banchetto, e non solo di coloro che da sempre ne hanno potuto mangiare. Se qualcuno ne rimane infastidito, beh, forse è il suo amore per il canone a essere debole.
*Avevo promesso di analizzare storie e mi sono già lanciata in tutt’altro: abbiate pazienza, è luglio. Ci vediamo dopo l’estate con un altro po’ di letteratura greca e il mio ospite d’onore preferito: Gilgamesh.*