La storia di oggi è fatta di tre storie. Sono, in fondo, la stessa storia, ma la morale che raccontano è molto diversa. Le prime due probabilmente le conoscete, ma è con la terza che tutto sarà chiaro. Cominciamo.
La prima storia è quella di Adamo ed Eva (Genesi 2-3). La conoscete tutti, quindi vado veloce: c’è un giardino perfetto, dove l’essere umano vive senza dolore. Per conservare questo stato di beatitudine, il primo uomo e la prima donna devono rispettare soltanto una regola: non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza. Il serpente però tenta Eva, che mangia il frutto e poi lo offre ad Adamo. La prima conseguenza di quest’atto è per entrambi la scoperta della propria nudità, o meglio, del fatto che la nudità sia una cosa da nascondere. La seconda conseguenza è la cacciata dal giardino perfetto, cioè l’esilio in un nuovo stato dell’esistenza, in cui l’uomo dovrà faticare per procurarsi il cibo, la donna dovrà provare dolore nel partorire, e in generale entrambi conosceranno fatica e dolore.
La seconda storia è quella di Pandora (Hes. Erga vv. 42-105); potrebbe essere più tarda di quella di Adamo ed Eva, o al massimo contemporanea. Esiodo la racconta per una ragione precisa: vuole spiegare come mai l’umanità debba faticare per procurarsi il sostentamento, e, più in generale, come mai esista il dolore. Nella storia, Prometeo ha appena rubato a Zeus il fuoco per darlo agli uomini e Zeus è furibondo. Vuole punire l’umanità tanto amata da Prometeo, e, per farlo, fa plasmare la prima donna, Pandora, che gli dei ammantano dei propri doni per renderla irresistibile. Costei, una volta sulla Terra, apre un vaso e da quel vaso escono tutti i mali del mondo, che si diffondono dappertutto senza scampo. Prima di allora, gli umani vivevano in piena beatitudine, ma da quel momento dovranno faticare per vivere, conoscere le malattie e il dolore.
Prima di arrivare alla terza storia, provo a trarre un po’ le fila della comparazione tra queste prime due, comparazione che è parsa naturale a tantissimi prima di me.
Partiamo dalla Genesi. Ora, credo che tanti di noi legherebbero istintivamente le proprie memorie di questo episodio a una certa condanna della sessualità. In realtà, nelle parole della Genesi la disobbedienza degli esseri umani è messa sì in moto da Eva, ma non ha di per sé a che fare con la sessualità, quanto con la conoscenza. Tuttavia, la prima cosa di cui prendono consapevolezza Adamo ed Eva, come dicevamo, è del fatto che essere nudi l’una di fronte all’altro è causa di vergogna. A questa presa di coscienza segue la cacciata dall’Eden, ovvero la caduta in un’esistenza in cui vigono fatica e dolore.
In Esiodo, l’azione che mette in moto la caduta è di nuovo compiuta da una donna; di nuovo non è legata esplicitamente alla sessualità, ma l’identità di Pandora è tutta costruita attorno alla sua pericolosa desiderabilità. A differenza che nella Genesi, anche di conoscenza qui non si parla esplicitamente, ma questo può avere a che fare con la composizione orale degli Erga, che lasciano spesso molte cose implicite; e va detto che l’immagine del vaso chiuso richiama facilmente le porte chiuse delle fiabe, che la principessa curiosa non dovrebbe aprire. La caduta è sempre la stessa: si precipita in uno stato in cui c’è la necessità della fatica e l’inevitabilità del dolore fisico.
La storia che ho lasciato per ultima è in realtà la più antica delle tre. È tratta da un testo di bellezza immensa: l’epopea babilonese di Gilgamesh. Come tutti i grandi poemi, è una storia che ne contiene mille, e che in estrema sintesi narra di come il mitico re Gilgamesh passi dall’immaturità alla saggezza. Centrale nella crescita di Gilgamesh è l’incontro con Enkidu, che è il suo opposto, il suo pari, il suo amico, il suo amato, il suo più grande rimpianto.* Di tutta questa grande storia, io voglio raccontarvi solo un episodio: eccolo qui.
Gilgamesh, che diventerà il re perfetto, è ancora giovane, e tra immaturità e forza sovrumana è piuttosto simile a un tiranno. Per porre un limite alla sua tracotanza gli dei fabbricano una creatura uguale e contraria a lui: Enkidu è forte (quasi) quanto Gilgamesh, ma Gilgamesh è figlio della città, Enkidu è figlio della steppa. Questo non vuol dire soltanto che vive nella steppa: no, Enkidu è coperto di peli, porta i capelli lunghi e si muove in branco con le gazzelle, con loro si abbevera e si nutre. Enkidu vive allo stato di natura con un’evidenza che non caratterizza così esplicitamente né la vita dei Greci prima di Pandora né quella di Adamo prima della caduta. Il racconto che lo riguarda è per noi prezioso proprio per la sua chiarezza.
Enkidu vive allo stato di natura, insomma, ma la cosa non può durare. Gli viene mandata incontro una donna, Shamhat - che viene dalla città e fa la prostituta - perché lo seduca. Così accade: Enkidu, mentre si abbevera, vede Shamhat e ne resta rapito, i due giacciono insieme ed Enkidu – bontà sua – resta eretto per sei giorni e sette notti: tanto dura quest’incontro con la sessualità. Quando l’esperienza si conclude, Enkidu guarda le gazzelle, le sue sorelle, ed esse fuggono davanti a lui. Il suo corpo, ci dice l’epopea, ha perso la purezza originaria; c’è doloroso rimpianto in questo. Eppure, nella stessa quartina in cui si parla di questo senso di perdita, si dice immediatamente cosa Enkidu abbia guadagnato: la ragione e la conoscenza. La sua iniziazione alla civiltà non finisce qui – deve ancora provare il pane e la birra, radersi, vestirsi, abbandonare lo spazio selvaggio della selva e finalmente andare in città – ma il cambiamento si è innescato, e non è una caduta, almeno non soltanto; è perdita, ma è anche acquisizione, e non c’è colpa alcuna. La pienezza della vita di Enkidu – l’incontro col suo amato Gilgamesh, le imprese eroiche che compirà con lui, fino all’arrogante sfida agli dei che lo condannerà a morte – è davanti a lui, non già esaurita in un passato al quale ha perso definitivamente l’accesso.
I punti di contatto tra questa storia e le altre due sono, credo, evidenti**: Enkidu, come Adamo e i Greci, viene esiliato dallo stato di natura per via di una donna, che – qui in modo esplicito – gli consegna la conoscenza attraverso l’atto sessuale. Prima di soffermarmi sugli aspetti che però in questa storia sono unici, voglio fare un ultimo passo indietro.
C’è un’esperienza remota e inaccessibile della quale l’umanità delle origini deve aver conservato memoria nelle storie che raccontava attorno al fuoco. È l’esperienza che precede il momento in cui abbiamo cominciato a camminare eretti, ad accendere il fuoco, a vestirci, in cui abbiamo iniziato a piantare semi invece che limitarci a raccogliere piante, a costruire capanne invece che vivere in grotte. È l’esperienza dello stato di natura, quando vivevamo come gli altri animali. Tanti dei nostri miti, sia greco-romani che semitici, ragionano con orgoglio su questo passaggio di stato: in questi miti siamo le creature elette, vicine agli dei più di ogni altra, con sguardo e pensieri rivolti verso l’alto del cielo. Eppure, nel guardare gli animali cui fino a poco prima assomigliava, l’essere umano avrà forse notato alcune cose. Avrà notato che gli animali, pur non liberi dalla fatica, erano gravati da una fatica a breve termine, che doveva sembrare quasi senza scosse. Gli animali non erano privi di dolore, ma agli occhi dell’essere umano il dolore degli animali è sempre sembrato tanto inconsapevole da essere irrilevante. E, per inciso, nessun animale conosceva un parto doloroso come le femmine del genere umano. Ecco. Forse, allora, accanto ai miti d’orgoglio per il superamento dello stato di natura, saranno nate delle storie che guardavano a quel cambiamento di stato come a qualcosa di cui dolersi; non una benedizione, ma una maledizione; una caduta dallo stato di grazia. Adamo ed Eva, Pandora, in parte Enkidu: tutte queste storie sembrano aitia che ragionano su questa cosa qui.
E tuttavia: cosa c’entra la donna in tutto questo? Perché in tre storie su tre questo passaggio è messo in moto dalla donna? È facile citare la misoginia del patriarcato, e nella Genesi e in Esiodo di misoginia ce n’è tanta. Forse però c’è dell’altro, qualcosa di più interessante; un’idea suggerita dalla storia di Enkidu, in cui alla donna non viene assegnata colpa alcuna.
Nella storia di Enkidu sembra che, per spiegarsi la caduta dell’umanità dallo stato di natura, i babilonesi abbiano attinto alla loro conoscenza di un altro cambio di stato: quello dall’infanzia all’età adulta. L’infanzia ha la purezza e la vitalità, ma non ha la ragione, né la conoscenza. Il confine più netto a separare infanzia ed età adulta, specie in una società senza il concetto di adolescenza, è l’esperienza della sessualità. In un contesto simile, è quindi nell’incontro sessuale con l’altro che si ufficializza l’uscita dallo stato d’inconsapevolezza dell’infanzia, un’età mitica per la quale ogni essere umano avrà sempre una qualche dolorosa nostalgia. Ma lo stato cui si approda diventando adulti non è terra di vergogna, non è frutto di una colpa, e, se è in effetti l’esilio da un passato cui non fare ritorno, è anche l’ingresso in una vita di pienezza. In questa storia, il contrario d’innocenza non è colpa; è esperienza. E, in fondo, chi di noi non accetterebbe di perdere la propria innocenza, se dall’altra parte del fiume c’è la meravigliosa esperienza del mondo, del corpo, dell’altro?
Nella storia di Enkidu, che una società maschile concepì per ragionare su cosa significasse essere uomini, Shamhat la donna è, implicitamente, il rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta ed è, esplicitamente, il confine tra stato di natura ed entrata nella civiltà. Shamhat, ci tengo a dirlo apertamente, è oggetto e non soggetto, in questa storia, è una funzione narrativa che traghetta Enkidu dalle sue origini al suo destino. Il punto, però, è che in questa storia di corporeità, sessualità e incontro con l'altro non c’è colpa, non c’è peccato, non c’è dannazione. E a me tutto questo sembra comunque un miracolo.
*Se questa storia vi attrae, leggetela nell’ultima edizione di Adelphi, che si basa sulla versione più aggiornata del poema messa insieme per ora dagli studiosi.
**Una precisazione: nel mondo babilonese, un’altra storia tratta esplicitamente delle origini del lavoro e della fatica come maledizione fabbricata dagli dei per gli uomini: è un poema dal titolo Atrahasis, in cui si dice in sunto che l’essere umano fu creato esplicitamente per portare il giogo della fatica al posto degli dei, che prima dovevano fare tutto da soli. I paralleli tra Shamhat ed Eva sono comunque frequentissimi nel panorama degli studi: la prima volta che sono stati proposti è nel 1899. Una buona bibliografia a riguardo si trova qui, dove l’autore in realtà propone un altro parallelo, anch’esso affascinante: quello tra Enkidu ed Eva.